In occasione della giornata nazionale del fiocco lilla dedicata ai disturbi alimentari, pubblico con piacere l’articolo di una cara amica: ho avuto la possibilità di essere canale, come leggerete, e porto a termine il mio prezioso compito condividendo con voi questo lavoro.
Per chi desiderasse approfondire l’articolo, l’ autrice mette a disposizione una versione più completa che potrete ricevere scrivendo una mail: dott.chiaramastrantonio@gmail.com
“Le riflessioni contenute nel presente articolo sono estratte da “ La cura dell’anima, la ricerca di sé oltre l’anoressia e la bulimia ”, tesi di laurea da me discussa nel 2016.
Nel mio lavoro ho affrontato il tema dell’anoressia e della bulimia dando voce a Giada, nome scelto per tutelare l’anonimato della ragazza, una delle tante, troppe anime imprigionate in un dolore incomunicabile, per paura, per vergogna e per la certezza di non essere comprese.
Attraverso il vissuto di Giada ho voluto trasmettere un messaggio di speranza perché se è vero che di anoressia e bulimia si può morire, lo è altrettanto il fatto che da esse si può guarire.
La guarigione, anche se difficile, è possibile solo a partire dalla volontà di abbandonare quella prigione del dolore in cui ci si ritrova rinchiusi per affidarsi alla cura.
Grazie di cuore alla mia amica, la dott.ssa Chiara Mastrantonio per aver gentilmente pubblicato questo articolo e per aver reso possibile l’incontro con Giada e la sua storia ed un grazie speciale alla relatrice della mia tesi, la prof.ssa Silvia Nanni, docente di Pedagogia dell’inclusione e formazione degli adulti presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi di L’Aquila che, nel 2017 mi ha dato l’opportunità di esporre le mie riflessioni davanti alle sue studentesse, un’esperienza per me davvero emozionante.”
Simona Vittorini
C’è una parola che definisce in modo emblematico il mondo dei disturbi alimentari e che Fabiola De Clercq utilizza nel suo emozionante libro “Fame d’amore donne oltre l’anoressia e la bulimia: paradosso”.
E’ proprio la natura paradossale di queste malattie a renderle insidiose e devastanti tanto da incidere gravemente sulla qualità della vita di chi ne soffre.
Un solo pensiero, onnipresente, pervasivo e persecutorio occupa la mente del soggetto anoressico-bulimico, quello del cibo e, legati indissolubilmente ad esso, quelli del corpo e del peso.
Il cibo, paradossalmente, da fonte di vita e di piacere, diventa un’ossessione con cui ogni giorno bisogna scontrarsi poiché viene vissuto come un nemico e, in quanto tale, odiato, temuto, rifiutato e di conseguenza sottoposto ad un rigido controllo.
Ecco, è proprio la logica del controllo a scandire le giornate di chi è vittima di un disturbo alimentare, manifestandosi su tre dimensioni: cibo, peso, corpo.
Calorie e quantità di cibo controllate, peso controllato da continue pesate sulla bilancia, corpo controllato da costanti ispezioni davanti allo specchio; questo è ciò che sembra contare veramente per la persona al punto da essere per lei d’importanza vitale.
Il controllo sul cibo richiede energia e forza di volontà perché bisogna resistere alla fame, all’impulso a cedere alla tentazione di mangiare e ciò non è ammesso; è qui che emerge un aspetto paradossale dell’anoressia.
La parola anoressia deriva dal greco “anorexia” e vuol dire “assenza di appetito”. L’etimologia del termine, però, non deve trarre in inganno, infatti la fame esiste, è solo che va governata, tenuta a bada; se si allentasse il controllo essa si manifesterebbe in tutta la sua potenza.
La fase eroica dell’anoressia, in cui si vive l’illusione di poter vincere il desiderio sporco di mangiare ben presto lascia il posto alla fase della disillusione, tipica della bulimia, in cui tale desiderio irrompe disperatamente.
La fame bulimica è eccessiva e distruttiva perché grandi quantità di cibo vengono letteralmente divorate ma essa ha il particolare potere di appagare, di placare quella tensione interiore che precede solitamente le crisi bulimiche.
Di nuovo, però, si tratta di un’illusione temporanea; tutte quelle calorie non devono essere ingerite, la persona non può trasgredire al suo progetto di un rifiuto totale del cibo, di conseguenza viene assalita dal senso di colpa e dalla necessità di dover cancellare il peccato commesso.
Quindi cosa fa? Farà ricorso a forme di compensazione, quali il vomito autoindotto, abuso di lassativi e diuretici, intensa attività fisica le quali, simbolicamente, rappresentano per il soggetto la ricetta miracolosa in grado non solo di purificare il suo corpo dal cibo ingerito ma anche la via d’uscita dal conflitto di cui è vittima.
L’anoressia e la bulimia non sono due malattie distinte ma sono l’una lo specchio dell’altra, sono due anime che convivono nella stessa persona riproponendo ogni giorno una lotta devastante tra il rifiuto totale del cibo nel primo caso e la coazione a mangiare nell’altro.
Non c’è spazio per le mezze misure, esiste solo il principio del tutto o niente: o rigido controllo ed assenza di cibo oppure perdita di controllo e quindi bisogno di riempire il corpo di cibo.
Ogni cedimento, anche minimo, come ad esempio una caramella, alla logica del controllo della fame innescherà la logica opposta, quella in cui domina il bisogno di dare spazio ad una fame che è insaziabile e quindi pericolosa: questo è il motivo per cui si cerca di dominarla.
Perché la necessità del controllo? Cos’è che deve essere controllato? Qual è la vera natura di tale fame? Queste sono le domande a cui è necessario rispondere se si vuole cogliere il significato del sintomo anoressico-bulimico.
L’anoressia e la bulimia sono disagi che solo apparentemente riguardano l’appetito; sono la soluzione paradossale ad un dolore dell’anima che non si può e non si riesce a comunicare, per paura, per vergogna e per la certezza che esso non venga accolto e compreso ma che trova una sua manifestazione attraverso il sintomo.
Quest’ultimo diventa una sorta di porto sicuro in cui approdare per fuggire da una realtà insopportabile; il bisogno del soggetto di dover controllare la propria vita si traduce nella ricerca di un ideale, mai raggiungibile, di perfezione e di distacco dal mondo, che viene comunicato mediante il rifiuto del cibo.
Il disturbo alimentare esige, per essere compreso, uno sguardo non giudicante e che si spinga oltre ciò che appare, il sintomo appunto. Al di là dell’anoressia e della bulimia ci sono storie di donne, come Giada e, in numero crescente, di uomini, che sono alla ricerca di uno spazio nel mondo, di un’identità che si fa fatica a costruire e che viene offerta dalla malattia.
Dietro il digiuno c’è la fame, come afferma la De Clercq, non di cibo ma d’amore; una «fame di rapporti autentici, fame di una vita più piena e ricca di significato». Il sintomo, paradossalmente, è la cura ad un male di vivere, è il tentativo estremo di sopravvivere ed è per questo che la persona non può pensare di liberarsene.
La guarigione, dunque, terrorizza eppure il segreto si trova proprio là, nel momento in cui il soggetto osa fare quello che più lo spaventa; la richiesta d’aiuto esprime il lasciarsi andare ad un gesto di rispetto e d’amore verso se stessi.
La guarigione, anche se difficile, è possibile, come mi ha raccontato Giada, ma solo a partire dalla volontà di abbandonare la prigione del dolore in cui ci si ritrova rinchiusi, per affidarsi a chi saprà ascoltare, comprendere e donare infine gli strumenti utili per tornare a vivere.
La persona può sperare di affrancarsi dalla malattia solo investendo in un percorso di cura che non affronterà da solo in quanto sarà accompagnato e sostenuto da chi, il terapeuta, avrà cura di guidarlo in un viaggio volto alla conoscenza ed alla cura di sé.
La relazione di cura è volta a condurre il soggetto ad una trasformazione dell’esperienza dolorosa della malattia per promuovere la crescita personale e la riprogettazione esistenziale.
Il cambiamento, pertanto, non si concretizza in una rimozione della sofferenza bensì in una risignificazione della stessa al fine di dischiudere la possibilità di sperare in una ripresa del cammino della propria vita.
L’elaborazione dell’esperienza del dolore, dunque, crea dentro di te non un vuoto, bensì uno spazio che andrà riempito di emozioni, di nuovi pensieri, di nuove esperienze, di vita, insomma, e tutto questo grazie al terapeuta che con la sua cura trasmette il desiderio di aver cura di se stessi.
Per concludere, la guarigione parte da se stessi, dalla volontà di dire basta ad una vita in compagnia della malattia per scegliere di vivere «una vita vera non semplice!»; non si può pensare ad una vita priva di dolore e difficoltà ma, grazie alla cura, possiamo ricevere gli strumenti necessari per affrontarli.
La mia dedica personale va a chi è guarito, come Giada (raccontandomi la sua storia mi ha aiutato nella stesura del mio lavoro), a chi purtroppo ha perso la battaglia, a chi soffre quotidianamente, con l’augurio di poter trovare dentro di sé la forza di chiedere aiuto, alle famiglie che inevitabilmente ne restano coinvolte ed a tutti coloro che sono impegnati in prima linea nella lotta contro i disturbi alimentari.
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